Solo un problema di identità

Solo un problema di identità

mercoledì 13 giugno 2012

Episodio 3:

E all'improvviso, dopo dieci mesi di lungo assedio, mi rendo conto di aver vinto le durezze di mio figlio. Mi sta attaccato come un koala, nei suoi occhi vedo una felicità che mi era ignota: calma, profonda, allegra. Dopo dieci mesi, mi rendo conto che finalmente mi ha vinto. Tornando a casa, in macchina, guardo le pecore addormentate che corrono nel cielo azzurro, e mi trovo a sognarlo ad occhi aperti. Sono felice quando lo vedo e quando non c'è mi manca.
Dopo dieci mesi di assedio, ha capito di avere una mamma. La vuole, la pretende, la esige con il caparbio orgoglio di un "adulto"; la corteggia. Jacopo è un pozzo senza fondo, fagocita affetto, s'ingrassa di una tenerezza robusta ed energica.
Dopo dieci mesi siamo diventati una famiglia di tre...



martedì 26 luglio 2011

Seconda puntata. Beijing.

Beijing.

Nuovo albergo, nuovi ritmi. Si ricomincia da capo, dopo un massacrante viaggio di 5 ore su un affollatissimo treno pieno, chissà come mai, di cinesi. Mi ricordo solo ora, ripensandoci, di aver incontrato nel viaggio d'andata un ragazzo italiano: un viaggiatore solitario che se ne tornava al tempio dei monaci Shaolin dove era stato anni prima, poco più che adolescente... Strani casi della vita.

Beijing esiste? Certo, ma non per noi. Per noi è un cielo coperto che asfissierà il nostro soggiorno per due settimane con i soi 35 gradi e 80% di umidità. Dalla finestra della nostra camera la vista è mozzafiato: grattacieli che emergono da una nebbia tossica, immagine degna di un film cyberpunk. A Yaya piace quella finestra perchè finalmente può confrontarsi con il suo doppio. Non si riconosce ancora allo specchio, inutile illudersi. Pechino è una clausura che ci siamo imposti perchè Yaya ha un bisogno estremo di ritmi, di calma, della certezza del cibo. Il cibo e la culla sono il suo mondo, i giochi sono quasi irrilevanti, 5 vasetti di plastica colorata sono più che sufficienti, riempiono lo spazio di 14 giorni. A volte a rompere la monotonia di questo gioco un palloncino, ogni altro giocattolo è superfluo, meglio una bottiglia di plastica accartocciata.

Yaya ha il terrore di non essere nutrito. Per lui la vita potrebbe benissimo essere soltanto il biberon, noi lo sediamo sullo sgabello e gli prepariamo minestrina con omogeneizzati e pastina. Guai a distrarsi durante l'imbeccata, guai allontanarsi anche solo di pochi centimetri. Tragedia nera. Di quando in quando siamo usciti a cena con gli amici (gli altri genitori adottivi), esperienza pietosa che purtroppo nessuno di noi ha avuto il coraggio di filmare! Cene mute, di volti tesi, un po' snervati, stanchi, di genitori il cui unico scopo è cercare di nutrire il cucciolo senza arrivare al pianto, pianto che inesorabilmente arriverà...

I giorni passano lenti, a volte lentissimi, non c'è amore in questi giorni, c'è solo la necessità di capire di cosa ha bisogno Yaya e non è facile visto che non sa parlare e non sappiamo assolutamente nulla sulle sue abitudini. Si sbaglia, ovviamente, e quando si sbaglia lo gettiamo nella frustrazione più profonda. I suoi pianti isterici sono potenti, durano tanto, si ripetono svariate volte al giorno; la prima frignata la si prende bene, con affettuosa premura; la seconda si cerca di essere razionali, di capirne la causa (ammesso che ne esista veramente una); alla terza ci si sente stupidi e sconfitti; alla quarta saltano i nervi (meno male siamo in due, perchè per razione quando uno dei due non ce la fa più l'altro, dimostra una calma ed un sangue freddo doppi); alla quinta … resta solo lo sgomento di tenere per altri 40 minuti tuo figlio duro come il marmo, stretto tra le braccia fino a farti venire i crampi perchè scalcia come un drogato in crisi d'astinenza e tirerebbe testate a destra e a manca: non resta che fare di sé una camicia di forza morbida. Poi, per la stanchezza, Yaya crolla. Ma questo non è consolare, questo è prendere per sfinimento.

Yaya ancora non si fida. Non recepisce l'abbraccio come un gesto d'affetto, non lo accetta, non accetta di essere calmato, non accetta le coccole (non le rifiuta) sembra non capire il linguaggio del corpo. O forse siamo noi che non trasmettiamo quel calore necessario a calmarlo. Si procede per gradi, lo amo di più quando è veramente in crisi, allora scatta qualcosa dentro che me lo fa sentire mio. Non è né semplice né spontaneo imparare ad amare questo cucciolo, non lo è per lui, non lo è per noi, perchè siamo ancora profondamente estranei. E mentre stringo Yaya che urla come un maiale scannato, rosso come un'aragosta bruciata ripenso alle paure di quei genitori che ho incontrato ai corsi preadottivi: molti hanno paura della situazione sanitaria, delle malattie del bimbo, della sua integrazione sociale...  a pensarci mi viene da ridere, la vera paura che dovrebbe nutrire un genitore adottivo è quella di non saper accettare o non essere accettato dal proprio figlio.

Il cibo ed il gioco sul letto sono un po' una tregua, sono i momenti in cui si “dialoga” su basi primitive. Funziona.

Poi Debora scopre il grande segreto di Yaya: la sua adorazione per la culla! Già, ogni pianto finisce nella culla, nella culla tutto il dolore sfuma in pochi istanti, la culla è la mamma e se innaffiata di biberon al latte allora è proprio gioia infinita! Ah soave culla, salvezza di noi genitori inesperti e maldestri. Certo, non è esattamente la maniera più affettuosa di risolvere i problemi, ma bisogna capitolare di fronte al potere della culla. Il desiderio di calmare il proprio figlio in dolci abbraccio per ora ce lo teniamo per noi, è prematuro, è una inutile violenza che lui subisce solo come una costrizione. Ammettiamolo, quei gesti affettuosi che ho sognato per mio figlio per lui non contano ancora nulla. Siamo ancora due estranei.

Intanto i giorni passano, la culla fa il suo dovere e la ripetitività delle giornate sortisce l'effetto sperato. Yaya si scioglie piano piano. E noi con lui. Mi intenerisce guardarlo mentre inizia a camminare (già, mica camminava all'inizio il nostro eroe), mi fa gusto sentirlo ridere e lui si diverte a farci cucù dalla culla o a sentirmi nitrire come un cavallo imbizzarrito. I pianti isterici diventano meno frequenti, Debora ed io ci diamo un po' di turni, tanto per alleggerire la clausura alberghiera. Alla fine riusciamo anche a girare un po' la città. Yaya a questo punto non si lascia ancora andare, questo è ovvio e chiaro, ma si fida. Si fida e si fa portare, trasportare, si fa fare, sfare e rifare. Alla fine non teme più di essere lasciato senza cibo, alla fine anche la culla diventa quasi irrilevante, anzi, quasi quasi starebbe alzato fino a tardi a fare bagordi con i genitori. Non siamo ancora genitori e figlio, ma siamo, almeno, amici.

giovedì 21 luglio 2011

Riassunto delle puntate precedenti: Zengshou

Zengzhou.

Zengzhou è una città insignificante, piuttosto squallida, forse per questo affascinante. Una notte in albergo che passa tranquilla e poi, il giorno seguente, finalmente, incontreremo Jacopo. Debora è emozionata, come tutti gli altri genitori del nostro gruppo, io... sono tranquillo. Tranquillo forse non è il termine giusto, sto bene, sto semplicemente bene. Fuori il cielo è incolore, atono, afono... il sole sta da qualche parte dietro ad una spessa coltre di nuvole che ci accompagnerà per quasi tre settimane. La notte poi, questa città turrita è buia, i palazzi non sono illuminati, le strade nere...

Il centro adozioni è uno stanzone lucidamente burocratico, non fosse per il piccolo box con i giochi per i bimbetti potrebbe essere solo una stanza di passaggio dai pavimenti lucidi, in cui sono state accatastati sedili di un minivan (!?).

Arrivano per primi gli americani, 15 famiglie, con tanto di parenti appresso, armati di telecamere sembrano uno squadrone d'assalto. Quando arrivano i bambini scoppia il caos, è difficile provare una qualche emozione di fronte ad un simile spettacolo. I bambini giocano, alcuni piangono, e gli americani riprendono tutto, come se la vita non fosse tale se non vista attraverso l'occhio della telecamera. Anche io provo a fare un filmino, desisto quasi subito.

Con noi ci sono Marcello, Angelica e il loro primo figlio Fernando, un bimbo adottato in Bolivia, intelligentissimo, simpatico, dotato di una sensibilità fuori dal comune. E' lui l'emozione più forte della giornata, strano a dirsi, ma è proprio il piccolo Fernando ad incarnare la profondità del momento. E' il più emozionato, aspetta il suo nuovo fratellino con ansia, forse con paura. Fernando ha una storia terribile alle spalle e due genitori meravigliosi, è proprio il caso di dirlo.
Quando arriva il nuovo fratello di Fernando l'atmosfera si fa cupa. Si capisce subito che Shi Fei è strano, che c'è qualcosa che non era emerso dalla sua scheda sanitaria. A colpo d'occhio sembra un bambino spastico. E' un momento angoscioso... Fernando fa di tutto per catturare l'attezione del fratello ma non serve a nulla; il suo impegno è commovente. La sua determinazione è superiore a quella di un adulto, fruga nello zaino cercando giocattoli, bolle di sapone o chissà cos'altro. Lo ammiro, lo adoro.

Jacopo arriva per ultimo. Una cosa piccola piccola, di colore grigio-verde, ha con sé una confezione di fazzolettini umidificati ormai secchi, questo è tutto il suo passato. Poca cosa... Si fa prendere, ha uno sguardo dolce, furbo, vispo e mite. Debora lo coccola, e gli da un po' di mela, lui si fa nutrire come un piccolo mammifero mansueto. Non ha paura, non piange, si lascia fare. E' un momento bellissimo ed irreale. Poi, quando tiriamo fuori le bolle di sapone, ride.

Nella confusione bisogna fare le firme, cercare di capire qualcosa di lui da quel poco che sanno i suoi accompagnatori (nulla), e magari godersi il momento.

Solo a sera, in albergo, dandogli per la prima volta da mangiare, finalmente capisco cos'è successo. E' bello, appagante. E così sono i primi giorni, che scorrono quasi tranquilli, noi cerchiamo di sedurlo e lui cerca di sedurre noi, genitori inesperti. Il tempo scorre come in un sogno, nulla sembra reale, l'unica cosa che veramente ci ancora alla realtà è la sua magrezza, e quindi la necessità di gonfiarlo di cibo. A notte è agitato, si sveglia piangendo, ma per ora si lascia cullare, si addormenta in braccio alla mamma, è magia allo stato puro. Un corpicino così chiama baci e carezze, e le sue risate sono francamente seducenti... tutto da copione, si fa fatica a crederci, ma ce lo hanno ripetuto decine di volte, che i primi giorni sarebbero andati così... è come un gioco cortese, ci si corteggia a vicenda, ci si studia, si cerca di innamorarsi. Si, perchè questo amore va costruito, va conquistato, va strutturato...

martedì 14 giugno 2011

Piccoli pensieri prima di partire...

La giornata è quasi finita, con mezzo bicchiere di birra e una sigaretta piccola piccola mi sento incline alla riflessione. D'altronde sono stati due mesi passati in un soffio... dopodomani si parte: lunedì saremo nello Henan e potremo finalmente abbracciare nostro figlio. Sono passati poco più di due anni dall'inizio di questa avventura. Due anni possono sembrare molti, lo sono sotto molti aspetti, ma sono stati anni meravigliosi, che ho vissuto in costante accelerazione. Le emozioni degli ultimi giorni sono straordinarie, vanno al di là di ogni immaginazione. Per questo ho pensato di raccoglierle, per quanto strane, in un agile breviario. Le lunghe chiaccherate con Debora hanno dato frutti interessanti, per non dire esilaranti.

Filiazione:
è una sensazione così intensa da dare dolori ossei! Pensando a Chen Hao, al suo musetto un po' sgomento come lo abbiamo visto nelle due foto a nostra disposizione sento le ossa dolere di una gioia intensa, stravolgente...

Eccitazione:
Il mio allenamento fisico è pari a quello di una mozzarella strutta al sole. Eppure riesco a correre 2,5 km in salita senza sentire fatica. Salendo su per i colli, attraverso il bosco mi sento volare. Le nuvole sono così vicine e le rondini mi volano accanto. Non ci vuole un parapendio per volare, non in queste condizioni!

Allucinazioni parentali:
non mi capitava da tempo di sentire mia madre e mio padre così vicini. La mia memoria di loro si fa così intensa e viva nel momento stesso in cui realizzo che presto sarò padre a mia volta che li vedo: lei alla mia destra, lui alla mia sinistra. E dietro di me, come tramanda una massima ebraica, 10 000 angeli, non strane creature alate, ma tutte le persone (gatti, cani e uccelletti) che ho amato e che mi hanno amato e non ci sono più. Uno strano, allegro, circo di entusiasti, felici ed estinti a cui devo il mio presente.

Niente cambia:
i gatti ci guardano e fanno le fusa, come al solito... la loro compagnia è un conforto senza eguali in questa tempesta emotiva di proporzioni inusitate. I gatti stanno.

Frasi celebri:
Debora via SMS 10 minuti fa: “mi sembra di volare!!”
Martino, in macchina, poco prima di entrare in galleria, due giorni fa: “mi sento come terra bruciata...” come un bosco incendiato, pronto ad accogliere la nuova semina. Roba da agricoltura medievale!

Calma:
le ultime ore riempiono il cuore di una profonda e speciale calma... i timori spariscono, i dubbi non hanno più alcun peso, ormai la meccanica della vita ha fatto il suo corso, un misto di gioia intensa e totale abbandono agli eventi pacifica l'animo.

Meccanica degli eventi:
Inutile negarlo, la prima volta che ho visto il viso di mio figlio ho sentito addosso la grandezza della meccanica della vita. Non poteva che essere lui, e non non potevamo che essere i suoi genitori: la storia ha fatto il suo corso, la storia di un bimbo nato in Cina, di sua madre, di suo padre, la nostra storia si è finalmente resa manifesta. Non credo nel destino, come non credo in dio, non credo in un fine ultimo, non c'è un punto di arrivo nella vita di nessuno, semmai l'esatto contrario: c'è un punto di partenza e da lì in poi tutto ha una sua logica. E alla fine, questa logica ha un volto, degli occhi e delle mani piccole, un corpo avvolto in un pigiamone sinteticissimo e liso.

E questo è quanto. Ancora dobbiamo fare i bagagli.:-)


giovedì 18 novembre 2010

La riforma Gelmini non è poi tanto diversa dal Kalashnikov dei Talebani.

In Cambogia i Khmer Rossi trucidarono tutti gli insegnati del paese, chiusero le scuole, cancellarono ogni forma di istruzione di qualunque grado, soffocando la nazione nella più brutale ignoranza. Chiaramente, ai figli dei dirigenti del partito fu comunque garantita la migliore istruzione possibile...

In Birmania accade più o meno lo stesso. La giunta militare birmana non ha sterminato la classe insegnante, tuttavia il sistema scolastico birmano è praticamente inesistente, mentre i figli degli alti ufficiali hanno accesso all'istruzione privata.

In Afghanistan i Talebani non hanno nulla di meglio da fare che sparare alle ragazzine che vanno a scuola: una bimba istruita è una bomba ad orologeria...

In Italia, beh nella nostra civilissima nazione, questi semianalfabeti che ci governano stanno facendo di tutto per cancellare l'istruzione pubblica, tagliando i finanziamenti alle scuole statali e finanziando le scuole private. Le scuole private, per definizione, dovrebbero essere private e competere nel "libero mercato dell'istruzione" (si parla tanto di rivoluzione liberale no?) con la scuola pubblica, senza alcun  finanziamento pubblico. Questo vorrebbe una mente veramente liberale, ma l'Italia non è un paese liberale; qui si fa tutto per accontentare questi piccoli potentati economici, serbatoi elettorali, a discapito del bene comune.
E la sinistra ha le sue colpe, inutile nasconderlo: i governi di sinistra per primi hanno aperto una falla nel sistema dell'istruzione pubblica, falla che col tempo si è aperta a dismisura.

La nostra classe politica ha sempre trattato dell'istruzione pubblica come di un feudo delle politica, senza preoccuparsi di rendere il sistema scolastico italiano robusto, competitivo, efficente e, soprattutto, veramente  accessibile a tutti.

La riforma Gelmini non è poi tanto diversa dai Kalashnikov dei Talebani.

martedì 16 novembre 2010

Sindrome di Babele.

Ovvero il bisogno compulsivo di imparare tutte le lingue con cui si viene in contatto.

Mi ha sempre colpito profondamente la narrazione biblica sulla nascita delle lingue della terra, non riesco infatti ad immaginare una punizione peggiore per il genere umano che quella che dio avrebbe inflitto agli uomini, mescolando le lingue, rendendo la comunicazione se non impossibile, quanto meno complicata.

Perchè la lingua disegna l'identità di un popolo, la sua capacità di pensarsi e di analizzare il mondo. La lingua disegna i confini dell'esperienza umana, traccia i limiti del territorio, identifica colui che è straniero...

Una lingua povera (come l'italiano parlato dalla maggior parte dei nostri connazionali) è espressione di un paese culturalmente debole. E mi viene spontaneo pensare che chi oggi esalta i dialetti locali (bellissimi, certo, ma pur sempre manifestazioni linguistiche estremamente limitate) viva in un mondo microscopico. La logica dell'énclave così come l'esasperazione dell'identità locale, sono i segni evidenti di un paese che sta soffocando nei propri confini.

Solo il pesciolino di Babele ci può salvare!:-)

mercoledì 13 ottobre 2010

Cambogia

Un ricordo d'infanzia: un documentario RAI sulla dittatura dei Khmer Rouge, era il 1986. Sullo schermo passavano immagini raccapriccianti del campo di sterminio di Tuol Sleng (S-21), il luogo infame in cui migliaia di persone avevano trovato una morte orrenda. Tra questi centinaia di bambini come me, bambini torturati e uccisi perchè “nemici del regime”.
 La disperazione che provai di fronte a quelle immagini non è mai scemata. Com'era possibile che, dopo la Shoah la storia si ripetesse con tanta brutalità?
 Ne parlai a scuola. I miei compagni risero, la parola Cambogia era così buffa. Ma la cosa più esasperante è che neppure la maestra sembrò comprendere la mia costernazione; qualche parola di circostanza per soddisfare lo strampalato alunno delle medie.
 Il genocidio che si è consumato in Cambogia è impressionante per dimensioni (si parla di due milioni di morti), metodo e, soprattutto, per la totale indifferenza dell'occidente.
 Nonostante, dopo la “liberazione” del paese ad opera delle forze Vietnamite, fosse oramai chiaro cosa fosse successo in Cambogia, il governo dei Khmer Rossi è sempre stato riconosciuto come legittimo e ha potuto avere la sua bella rappresentanza presso le Nazioni Unite. Un po' come se la Germania, alla fine della seconda guerra, avesse potuto mantere un governo nazional-socialista e sedere presso l'ONU.

Oggi la Cambogia è una democrazia fragile, governata dall'immortale Hun Sen (ex-Khmer Rouge, poi passato alle formazioni filo-vietnamite), che sopravvive all'ombra dell'immensa Cina, del nemico-amico Vietnam, che litiga con la vicina Thailandia... Un paese commovente, fragile, devastato, che sta rinascendo a fatica e su cui il secolo passato ha sfogato tutta la sua violenza.

Sabai Kampuchea!