Beijing.
Nuovo albergo, nuovi ritmi. Si ricomincia da capo, dopo un massacrante viaggio di 5 ore su un affollatissimo treno pieno, chissà come mai, di cinesi. Mi ricordo solo ora, ripensandoci, di aver incontrato nel viaggio d'andata un ragazzo italiano: un viaggiatore solitario che se ne tornava al tempio dei monaci Shaolin dove era stato anni prima, poco più che adolescente... Strani casi della vita.
Beijing esiste? Certo, ma non per noi. Per noi è un cielo coperto che asfissierà il nostro soggiorno per due settimane con i soi 35 gradi e 80% di umidità. Dalla finestra della nostra camera la vista è mozzafiato: grattacieli che emergono da una nebbia tossica, immagine degna di un film cyberpunk. A Yaya piace quella finestra perchè finalmente può confrontarsi con il suo doppio. Non si riconosce ancora allo specchio, inutile illudersi. Pechino è una clausura che ci siamo imposti perchè Yaya ha un bisogno estremo di ritmi, di calma, della certezza del cibo. Il cibo e la culla sono il suo mondo, i giochi sono quasi irrilevanti, 5 vasetti di plastica colorata sono più che sufficienti, riempiono lo spazio di 14 giorni. A volte a rompere la monotonia di questo gioco un palloncino, ogni altro giocattolo è superfluo, meglio una bottiglia di plastica accartocciata.
Yaya ha il terrore di non essere nutrito. Per lui la vita potrebbe benissimo essere soltanto il biberon, noi lo sediamo sullo sgabello e gli prepariamo minestrina con omogeneizzati e pastina. Guai a distrarsi durante l'imbeccata, guai allontanarsi anche solo di pochi centimetri. Tragedia nera. Di quando in quando siamo usciti a cena con gli amici (gli altri genitori adottivi), esperienza pietosa che purtroppo nessuno di noi ha avuto il coraggio di filmare! Cene mute, di volti tesi, un po' snervati, stanchi, di genitori il cui unico scopo è cercare di nutrire il cucciolo senza arrivare al pianto, pianto che inesorabilmente arriverà...
I giorni passano lenti, a volte lentissimi, non c'è amore in questi giorni, c'è solo la necessità di capire di cosa ha bisogno Yaya e non è facile visto che non sa parlare e non sappiamo assolutamente nulla sulle sue abitudini. Si sbaglia, ovviamente, e quando si sbaglia lo gettiamo nella frustrazione più profonda. I suoi pianti isterici sono potenti, durano tanto, si ripetono svariate volte al giorno; la prima frignata la si prende bene, con affettuosa premura; la seconda si cerca di essere razionali, di capirne la causa (ammesso che ne esista veramente una); alla terza ci si sente stupidi e sconfitti; alla quarta saltano i nervi (meno male siamo in due, perchè per razione quando uno dei due non ce la fa più l'altro, dimostra una calma ed un sangue freddo doppi); alla quinta … resta solo lo sgomento di tenere per altri 40 minuti tuo figlio duro come il marmo, stretto tra le braccia fino a farti venire i crampi perchè scalcia come un drogato in crisi d'astinenza e tirerebbe testate a destra e a manca: non resta che fare di sé una camicia di forza morbida. Poi, per la stanchezza, Yaya crolla. Ma questo non è consolare, questo è prendere per sfinimento.
Yaya ancora non si fida. Non recepisce l'abbraccio come un gesto d'affetto, non lo accetta, non accetta di essere calmato, non accetta le coccole (non le rifiuta) sembra non capire il linguaggio del corpo. O forse siamo noi che non trasmettiamo quel calore necessario a calmarlo. Si procede per gradi, lo amo di più quando è veramente in crisi, allora scatta qualcosa dentro che me lo fa sentire mio. Non è né semplice né spontaneo imparare ad amare questo cucciolo, non lo è per lui, non lo è per noi, perchè siamo ancora profondamente estranei. E mentre stringo Yaya che urla come un maiale scannato, rosso come un'aragosta bruciata ripenso alle paure di quei genitori che ho incontrato ai corsi preadottivi: molti hanno paura della situazione sanitaria, delle malattie del bimbo, della sua integrazione sociale... a pensarci mi viene da ridere, la vera paura che dovrebbe nutrire un genitore adottivo è quella di non saper accettare o non essere accettato dal proprio figlio.
Il cibo ed il gioco sul letto sono un po' una tregua, sono i momenti in cui si “dialoga” su basi primitive. Funziona.
Poi Debora scopre il grande segreto di Yaya: la sua adorazione per la culla! Già, ogni pianto finisce nella culla, nella culla tutto il dolore sfuma in pochi istanti, la culla è la mamma e se innaffiata di biberon al latte allora è proprio gioia infinita! Ah soave culla, salvezza di noi genitori inesperti e maldestri. Certo, non è esattamente la maniera più affettuosa di risolvere i problemi, ma bisogna capitolare di fronte al potere della culla. Il desiderio di calmare il proprio figlio in dolci abbraccio per ora ce lo teniamo per noi, è prematuro, è una inutile violenza che lui subisce solo come una costrizione. Ammettiamolo, quei gesti affettuosi che ho sognato per mio figlio per lui non contano ancora nulla. Siamo ancora due estranei.
Intanto i giorni passano, la culla fa il suo dovere e la ripetitività delle giornate sortisce l'effetto sperato. Yaya si scioglie piano piano. E noi con lui. Mi intenerisce guardarlo mentre inizia a camminare (già, mica camminava all'inizio il nostro eroe), mi fa gusto sentirlo ridere e lui si diverte a farci cucù dalla culla o a sentirmi nitrire come un cavallo imbizzarrito. I pianti isterici diventano meno frequenti, Debora ed io ci diamo un po' di turni, tanto per alleggerire la clausura alberghiera. Alla fine riusciamo anche a girare un po' la città. Yaya a questo punto non si lascia ancora andare, questo è ovvio e chiaro, ma si fida. Si fida e si fa portare, trasportare, si fa fare, sfare e rifare. Alla fine non teme più di essere lasciato senza cibo, alla fine anche la culla diventa quasi irrilevante, anzi, quasi quasi starebbe alzato fino a tardi a fare bagordi con i genitori. Non siamo ancora genitori e figlio, ma siamo, almeno, amici.
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